STAZIONI E AURICOLARI, Racconto breve scritto in treno @ 5 January 2008 06:33 PM
Ho bevuto una birra in bottiglia venendo verso la stazione per prendere sonno più facilmente sul treno, quindi ora sono proprio a terra, la pressione bassa che se mi faccio un taglio al posto che uscirmi sangue mi entra l’aria.
E poi gli auricolari nelle orecchie dovrebbero dire a chi mi vede che non ho nessuna voglia di parlare.
Mi sono messo su questa panchina da solo, intenzionato a godermi un po’ di decrepite canzoni con quella leggerezza proveniente dalla morettona da 66. Birra da edilizia, da accoppiare con le Diana rosse morbide.
Questa biondetta da quattro soldi che mi si è seduta di fianco non l’ha mica capito, il messaggio degli auricolari: nell’appoggiare la borsa inpreca ad alta voce qualcosa che non afferro perchè il volume lo tengo sempre altissimo, specie quando stanco. Vedendo che non reagisco alle sue parole, la stronza mi guarda: sento il suo sguardo pesarmi come un macigno sulla nuca. Allora alza ancora la voce, indirizzando un forte “vaffanculo” alla sua borsa, di modo che il concetto - questa volta semplificato ed amplificato - mi giunga più chiaro: aveva voglia di attaccare discorso alla maniera di chi attacca bottone cercando una reazione del tipo “tutto a posto?”, e a quel punto, nonappena l’ingenuo malcapitato avesse finito di pronunciare queste sciagurate parole, si sente autorizzato a parlarti per venti minuti della sua giornata di merda.
Li conosco gli attacca bottone come te ma a me non mi freghi, piccola stronza, non muovo neanche un muscolo, proprio come se tu non esistessi: non è giornata di chiacchiere da stazione. Anzi guarda, ora non penso più neanche che ci sei: prendo un libro dalla borsa ed inizio a leggere. Tra l’altro mi tratto bene: A Ovest di Roma, di John Fante.
Se questa stupida capisse qualcosa mi direbbe: “Ah, leggi John Fante? Sai che a me piace più di Bukowski?”. E a quel punto potrei anche smettere di leggere, potrei perfino togliermi le cuffiette, perchè mi interesserebbe sapere per quale cazzo di motivo pensi che il pur eccelso John Fante sia superiore al maestro assoluto della letteratura moderna.
Ma tu non dirai niente del genere, slavata biondina, perchè non sai nemmeno chi sono questi due signori. Forse non hai neanche mai letto un libro, dubito perfino che tu sappia scrivere correttamente il tuo nome.
“Scusa – s’azzarda lei, e lo ripete tre o quattro volte, finchè non mi rassegno alla sua sfacciataggine, e mi tolgo l’auricolare di destra – Scusa... ma è qui che parte il diretto per Milano Centrale? No... che figura... si vede tanto che è la prima volta che prendo il treno?”.
“Si, è il binario giusto” le dico con l’auricolare in mano a mezz’aria pronto a riconficcarsi nell’orecchio, su su verso il cervello.
Ma lei non fa caso ai miei modi tutt’altro che accomodanti: “Veramente io dovevo prendere quello prima ma guarda, la corriera era talmente in ritardo, e poi c’era una coda alla biglietteria...”.
Adesso potrei fare qualcosa di cattivo, questa gente se lo merita proprio: potrei rimettermi il libro in borsa, alzarmi senza dire una parola ed andarmi a sedere su una panca vuota poco più in là. Già mi immagino la faccia che faresti, stronzetta dai capelli gialli, offesa e piena di risentimento.
Purtroppo non c’è nessuna panca vuota in vista, e la gag non sarebbe abbastanza efficace senza di essa. Ma poi chi cazzo se ne frega, tanto non lo avrei mai fatto, mi sarebbero venuti i sensi di colpa per almeno una settimana. Non sono il genere di persone capaci ad avere atteggiamenti cattivi, quando ci provo finisco sempre per fare più male a me stesso che agli altri.
Ma questa sempliciotta biondiccia se le và davvero a cercare: “Le spiace se mi siedo vicino a lei, suo treno? No, sa, è che ho un po’ paura...”, dice facendo un cenno con il mento, ad indicare un gruppo di stranieri lì a fianco. “Penso che non prenderò mai più un treno!” commenta con un risolino isterico.
Qui butta male, và a finire che la prendo a calci nel culo. E magari le urlo: “Visto? Sono bianco e cristiano, eppure ti ho preso a calci nel culo mentre quei negri musulmani non ti hanno nemmeno guardata da lontano, stronza”.
Rimetto a posto John Fante e prendo il libro di Vinicio Capossela, che le seghe mentali raccolte in Non si muore tutte le mattine di quel bastardo ubriacone mi riescono più orecchiabili dei racconti eleganti di Johnny, ora come ora.
Ma pensa un po’ che sfacciata, Fante meglio di Bukowski... lo avevo capito dal primo istante che non valevi un cazzo, già da come fumavi la tua Marlboraccia.
Ti va di fare chiacchiere da stazione? Nessun problema, ma non con me! Te le sei già dimenticati gli auricolari? Secondo te uno che ha voglia di fare chiacchiere da stazione porta gli auricolari? O legge libri?
E poi un’altra cosa: la prima volta, con quel suo cazzo di “Scusa” a martelletto, mi aveva dato del “tu”. Perchè diavolo poi era passata al “lei”?
Era forse un altro trucco perché le dicessi cose tipo: “Ma cosa fai, mi dai del lei? Guarda che ho appena 26 anni!”. 27 anni, o quanti diavolo ne ho. 27, fino a Maggio.
A pensarci bene, ma quanto tempo si passa, dai 25 in poi, a pensare che hai quasi 30 anni? E tutti presi da questo oscuro pensiero si finisce per dimenticarsi la propria età esatta. L’unica cosa tragicamente importante è che sono “quasi 30”, è questo lo spavento e lo sconcerto. Poi, che siano 26 o 28 non importa niente a nessuno, e questo è quanto.
Bisognerebbe fare un referendum, per spostare l’età alla quale si inizia a dare del Lei alla gente... io farei 50. Se hai o dimostri più di 50 anni, ti meriti che ti diano del lei. Prima no...
E la vecchiaia, intesa come saggezza, dovrebbe essere ritenuta talmente preziosa ed invidiabile, che un 45enne, se qualcuno gli dà accidentalmente dei “lei”, dovrebbe sentirsi onorato anziché offendersi.
Arriva il treno. “Io ti seguo”, dice ridacchiando.
Che fa, mi minaccia? In tutta risposta le abbaio sottovoce, come i cani quando abbaiano nel sonno, poco più che un respiro.
Non sono mai stato così felice di salire su un treno affollato. Che sfiga, non ci sono due posti vicini. Tu vai nel primo scomparto con i buana bianchi, che in 5 faranno 800 Kg. Lardosi e smunti vecchi cadenti, con le patatine fritte nel taschino e la faccia da gamberi, indifferenti, discreti, unti, sazi e immersi in una conversazione al cellulare. C’hanno pure l’auricolare, così possono gesticolare con due mani mentre parlano con qualcuno di invisibile, gli psicopatici.
Io mi metto nello scomparto seguente, dove c’è qualcuno che ride, perlomeno. Africani, hanno una radio. Loro però fanno gruppo, e non allargano il cerchio perchè io possa entrare nel cenacolo, parlano Swaili.
Vorrei dirgli: “Ma voi mica mi confonderete con questi stracchini qui! Non ditemi che da fuori sono così simile a loro! Io non ce le ho la patatine fritte!”.
Fa niente, amici miei, avete ragione voi a non inglobarmi nel cenacolo, con o senza patatine sono pur sempre distante da voi, dalla riva opposta del mediterraneo. Allora sapete cosa faccio? Tiro fuori il mio computer, tanto ormai abbiamo dato per assunta la distanza che ci separa, e mi metto a scrivere questo racconto, che sia metà John Fante e metà Bukowski. E anche metà Lorenzo Fontana, perdio.
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