Sette, undici, otto. @ 1 September 2009 08:22 PM
Come un enorme felino in agguato lo aspettava, rimanendo impassibile nell'attesa, sicuro che prima o poi l'avrebbe fatto suo. Lui dormiva. Il suo sonno, buio e piatto e senza sogni, iniziava ad arrivare al termine: forse la percezione di quanto lo attendeva, forse il normale decorso dell'umano dormire. Il suo corpo iniziava ad essere percorso da leggeri tremiti, contrazioni involontarie dei muscoli che si preparano a funzionare di nuovo. I suoi globi oculari si muovevano come impazziti sotto le palpebre, subito prima del risveglio, disegnando sulle membrane sottili (che pietose ancora impedivano la visione del nulla) gobbe e dune, che un ipotetico osservatore avrebbe potuto apprezzare e considerare nel loro quasi mostruoso avvicendarsi di forme.

Luce? No, niente luce. Mh, devo aver lasciato le tapparelle chiuse. Beh, ancora qualche istante e poi mi attivo, tanto la sveglia non è ancora suonata. A proposito: che ore sono? ...Stupida sveglia. Si vede che è saltata la corrente. Ah, tocca alzarsi. Ma... Ho dormito senza coperte? Un attimo. Si, ieri sera ho bevuto un po' più del dovuto, ma non al punto di dimenticarmi le coperte. Ehi, com'è che il letto non cigola come al solito? Un attimo. Quale letto? Non sento nulla sotto la schiena. Ehi, dove cazzo sono?

Era già troppo tempo
che limpido l'amore non solcava
il mio solitario campo,
era fin troppo lungo
il varco oscuro che mi separava
da ciò cui sol ora giungo.
Era già troppo il nero
che l'anima mia triste contemplava
sola, buia, senza vero.
E ora l'assoluto
m'illumina con quanto ricordavo
sol nei sogni, e non voluto.

Non male, vero? L'ho scritta l'altra sera, pensando a te. Sai, sono troppo felice, in un modo che non credevo fosse ancora possibile per me. Sto sentendo di nuovo, vive, cose che credevo dimenticate e decrepite. Sai, per te venderei l'anima, se non l'avessi già fatto. Non ridere! non è uno scherzo. È una lunga e triste storia, e non credo che sia il momento per rendertene partecipe. Fatti baciare e ringrazia il dio che ha avuto il buon gusto di permettere che questo succedesse. Ah, se morissi ora morirei soddisfatto. Cosa può volere un uomo quando ha un abbraccio come questo?

Aveva appena aperto gli occhi. Forse ancora non capiva, forse invece un velo di pazzia (più o meno coscientemente autoindotta) lo risparmiava da ciò che lo stava attendendo. Forse era semplicemente rintronato dalla quantità esorbitante di alcol con cui la sera precedente aveva cercato, senza successo, di uccidere il dolore. Si guardava intorno con aria smarrita, senza capire che tutto ciò non era un sogno particolarmente vivido o una visione mistica con cui Dio gli consigliava di darsi a un particolarissimo tipo di bungee jumping, ma solo la sua nuova realtà. L'influenza che l'abisso esercitava stava iniziando a farsi più forte: lui chinava gli occhi in basso, infatti, cercando i caratteri squadrati e gialli di una radiosveglia che non c'era. Ecco, forse aveva capito. Si stava girando, ruotava senza sforzo sull'asse verticale del suo corpo. Doveva aver capito che nessun letto, nessuna coperta, nessun oggetto materiale gli stava attorno. Nulla di nulla.

No. Qualcosa non funziona. Come gli astronauti in assenza di gravità. Ehi, adesso sono sveglio, sono abbastanza cosciente. Ah! ...Non sento la mia voce, non la sento con le orecchie. Cosa succede? Non riesco a toccarmi le orecchie. Dev'essere un sogno. Sicuramente è un sogno. Ma non sogno da mesi, forse anni. Come mai adesso? Come mai non vedo, non sento? E poi, ci sono? Lo so, è una domanda stupida, ma è abbastanza naturale chiederselo, quando non vedi e non senti la tua voce, e del tuo corpo non ti rimane che una impressione vaga, quasi un ricordo sfumato. Basta davvero il mio interrogarmi per definire con esattezza la mia esistenza? Non capisco. Ho davvero aperto gli occhi? Ho mosso le braccia e le mani? E poi, ora, cos'è questo senso di soffocamento, questa oppressione al collo? C'era e non lo notavo o è giunto ora? Fermi tutti. Un passo alla volta. Ragioniamo. Ragioniamo, cazzo.

Cristo, ma cosa mi fai... Con te non riesco più a seguire il filo dei miei pensieri, mi perdo, mi dissolvo in una nebbia strana e fluida, un morbido oggetto, qualcosa di avulso dalle leggi normali del mondo. Sono, qui e ora, e basta. Accetto le tue carezze, rispondo ai tuoi baci, sprofondo nell'abbraccio tenero della tua carne, mi pasco e mi beo della dualità del nostro uno, e dell'unicità del nostro due, e torno in te ancora e ancora, e non sono più io, e non sono, e sono te e tutto il resto. Mh. Dov'è il dannato posacenere? Ecco, aspetta che mi metta qualcosa addosso. Eh, che ci vuoi fare, è un viziaccio da telefilm, per giunta abbastanza stereotipico, ma questa è la sigaretta più buona che un uomo possa fumare. Guarda quella nuvoletta. Guarda come si avvita e si annoda nel piccolo cielo chiuso in queste quattro mura da povero. Eccomi. Ecco, io creatura dissolta cerco alla stessa maniera di dare corpo a me e al mio pensiero, annodandomi all'infinito su me stesso, e in quel momento e in quel movimento trovo il mio essere. Se poi mi guardi così, se ti alzi, nuda, con quella dolcezza languida da donna innamorata, è di nuovo la fine. Ecco che di nuovo evaporo. Doccia? E' piccola, ma in due ci stiamo.

Sentiva l'angoscia montare. Sentiva quella pressione, quella stretta farsi più prepotente. Gli occhi sbarrati non vedevano, e le altre membra non rispondevano ai suoi comandi, che man mano si facevano più frenetici, impazziti e assurdamente incomprensibili. Cercava un filo, con strumenti che potevano essere adeguati a trovarlo in altri luoghi, in altri tempi. Non li. Non in quella condizione avulsa da ogni senso umano. Il sangue gli pulsava nelle tempie, nello sforzo inutile di concretizzare il suo essere, di mantenere i confini tra sé e il resto. Ma ecco che un lampo, uno squarcio, una sorta di illuminazione gli permetteva di lanciare uno sguardo veloce e parziale sullo stato delle cose. Un'epifania inqualificabile, violenta e pietosa, che non era possibile classificare nettamente come spontanea o indotta.

Ieri pomeriggio sono uscito. Volevo prendere un po' d'aria, uscire dalla mia tomba, dal mio volontario isolamento dalle cose e dal mondo. Ricordo il vecchio col cane. Mi ha salutato. Ricordo i ragazzini che uscivano dalla scuola, ricordo di essermi interrogato su che giorno fosse. Ho seguito i miei passi, nei percorsi abituali e ormai automatici per le vie di questa città morta. Le solite vetrine, i soliti negozi, le solite facce. La pizzeria, il pub, la lavanderia a gettone, il bazar orientale, la porta della facoltà, il tatuatore, la fermata dell'autobus. Potrei rifare quella strada a memoria, tante volte l'ho percorsa. Sono sceso alla chiesa di san Francesco: volevo restare un po' in pace, assaporare l'odore di fogliame marcescente, la nebbia e il fumo delle mie sigarette, leggendo sulla panchina alla luce del lampione. Poi... Poi. No, non posso essermelo dimenticato. Non avevo ancora toccato nemmeno un goccio. Conosci, comprendi, controlla. Ho ancora i denti, ho ancora i denti, ho ancora i denti, ho ancora i denti...

Te ne vai? Ah, il lavoro. Speravo ti saresti fermata di più. Ecco, prendi: Non è un granché, ma sai che ho una discreta passione per le cose fuori moda e per gli odori. È un mio fazzoletto, intriso del mio profumo. Spero che possa confortarti, durante il viaggio e la conseguente nostra lontananza. Mi mancherai moltissimo. Banale, ma vero. Vedi, di tanto in tanto sono ancora in grado di dire cose normali, di non perdermi nelle volute e nelle contorsioni del mio pensiero annodato. Beh, mi sembra scontato, certo che ti accompagno al treno. Ecco, prendi anche questo. È il regalo più prezioso che posso farti, nella mia condizione di scribacchino squattrinato. Ma sono sicuro che sei in grado di cogliere il senso di queste cicatrici d'inchiostro su carta grigia, il loro valore intrinseco.

Ti guardo, e t'allontani.
In un tremendo e lungo shot di tempo
se ne vanno le tue mani.
Ed ecco, lo temevo,
il bacio tuo, il tiepido sentore,
io con forza morder devo.
Mi pento: non è modo.
Non morsi, non catene vuole Amore
dentro me di già mi rodo.
Andare è tuo destino:
tu partirai; per quanto faccia male
amo anche il tuo cammino.

Delirava. Credeva ancora di essere dotato di strumenti per spezzettare, analizzare e comprendere il suo presente, il suo essere nel tempo, quando le stesse categorie a cui si appellava non avevano più significato. Non aveva più denti, per dirla con le sue parole. Poteva accontentarsi del passato, già masticato in precedenza. Ed ecco, se possibile, un barlume. Un fenomeno di iperestesia, o una percezione completamente diversa, giuntagli per canali differenti da quelli tipicamente umani. Però aveva visto. S'era fermato, interrompendo la sua lenta e dondolante rotazione. Gli ultimi ricordi, gli attimi già masticati emergevano. Occhi sgranati, gocce amare, bocca spalancata, presagio di un incombente urlo disperato e muto.

Poi sulla panchina c'eri tu. Tu, forma del ricordo che cercavo di uccidere con tutte le mie forze. Mi sono accasciato, le gambe tremanti e il fiato rotto, tachicardico e prossimo al collasso.

...Pronto? Ciao, amore mio. Hai fatto buon viaggio? Scusa, non credo di aver capito. No, ti prego, pensaci ancora, pensaci meglio.

Leggevi, su quella panchina, esattamente come era nei miei progetti fare, se non ti avessi vista. Leggevi, non mi avevi neppure notato, mentre io provavo, vivo, qualcosa che potrei definire solo come l'angoscia di chi muore annegato, vedendo l'aria sempre più lontana, sopra un'acqua via via più cupa.

...Allora questo è quello che vuoi, quello che davvero desideri. Bene, non tratterrò i tuoi baci, non ti legherò a me, perché non è questa l'essenza del mio amare. Non ti dirò di non andare, se davvero vuoi andare.

Mi avevi chiesto di togliere le tue fotografie dalla mia prigione. E leggevi, e ti sistemavi i capelli con lo stesso gesto, con lo stesso sbuffo annoiato e sensuale che tante volte avevo osservato standoti accanto, nelle nostre notti fuori del mondo, nei nostri giorni comuni. Morti. Finiti. E tu, di fronte a me, eri sale per quelle ferite ancora aperte e sanguinanti, spettro inconsapevole. Non lo sai, ma in un mondo orribile la bellezza più fulgida può uccidere.

...Segui la tua strada. Sii felice. Dimenticami, se puoi. Sarà più facile. Io? In qualche modo farò, non chiedermi come perché non ne ho idea. Solo, sappi che non potrò dimenticare, per quanto mi ci impegni. Allora, buona vita. Arrivederci o addio, sarà solo il destino a deciderlo.

Mi sono rialzato, gli occhi troppo asciutti per piangere ancora. Mi sono rialzato, e t'ho guardata ancora, come il masochista cerca di nuovo il dolore nei suoi strumenti. Prima di crollare ancora una volta, ho ricalcato i miei passi, ripercorso le stesse strade, visto le stesse vetrine e le stesse facce. Poi, di nuovo le mie quattro mura da povero. Il vino, tanto vino. Il dolore che non si attenua. Le acque nere che mi si chiudono sulla testa, fredde ed inesorabili. Ho registrato il resto in maniera meccanica. Mi vedo raccogliere la mia catena, comperata apposta tempo addietro. Mi vedo spegnere le luci, accarezzando in un ultimo sguardo ormai rassegnato la mia stanza, le mie cose, i miei libri, il letto su cui ci eravamo amati. Chiudo la porta, barcollo fino alla più vicina buca delle lettere. Una busta con il tuo indirizzo. Dentro, nessun biglietto, solo una chiave. Proseguo fino al ponte su cui tante volte ero passato. Prendo il lucchetto della mia bicicletta, lo uso per fissare alla ringhiera quello che sarebbe stato il mio ultimo legame con il mondo, quello definitivo. Vedo mani tremanti realizzare il nodo, sento l'ultima bestemmia ringhiata a denti stretti. Sento il vento della caduta, poi, nulla.

Il suo urlo s'era spento, le mascelle richiuse. Solo gli occhi ancora gocciolavano, tristi. Ora era consapevole. Ora vedeva, sentiva, comprendeva l'abisso in agguato, riconosceva la pressione sul collo. S'era chiesto, per un momento, come mai non cadesse. S'era risposto, sentendo il freddo metallo sul collo, rendendosi conto della natura e della struttura del suo personale angolo d'inferno. Gentile lettore, io che scrivo ti investo ora di una responsabilità non dappoco. Qui finisce questa storia, qui ne inizia un'altra, perché fino alla fine dei tempi non ci saranno mai, nel mondo, principi e conclusioni, ma solo continui mutamenti. A te l'arbitrio, tu che dai sostanza alle mie forme, tu che dai sangue e carne alle creature di questo scribacchino da quattro soldi. Decidi tu, e pondera bene, se vuoi conoscere la storia che qui comincia. Decidi tu se proseguire la lettura, se darmi sostanza, carne e sangue.

No. Non il nulla. Il mio cuore morto può tornare a battere, può ancora pompare sangue e vita a queste membra stanche. Posso ancora scegliere, posso ancora affermare la mia volontà, il mio arbitrio di uomo su tutto questo nonsenso. Non è ordinabile? Posso accettare il disordine. Non posso dimenticare? Posso esaltare alcuni aspetti del ricordi, posso esperire, provare e ricordare altre cose. Ho sbagliato, e riconosco il mio errore. Così sia.
Il mio collo! Non sento più il metallo. Il vento, di nuovo! Si, sto piombando in quella cosa assurda e nera, ma non la temo. Sono un essere umano. Resisterò, e supererò anche l'orrore supremo.

Era disteso su una macchia di erica odorosa, intrisa di rugiada morbida e fresca. Lontano, a est, il sole stava sorgendo piano.

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